L’Influenza del tempo di posa nel ritratto

L’intensità dello sguardo che possiamo constatare nei ritratti realizzati all’inizio dello scorso secolo colpisce per la profonda interpellazione che quella osservazione insistita propone a chi guarda. Una fissità che si accompagna ad una profondità dello sguardo oggi non comune. Nel constatare le condizioni di lavoro di quei primi fotografi, possiamo facilmente inferire variabili di tipo ambientale e sociologico. Fare una fotografia, un ritratto, invece d’esser la banale conseguenza della pressione di un dito su un oggetto tecnologico, ad esempio un telefono, era la cosciente consegna alla posterità della propria apparenza e sostanza culturale.


Fonte Wikipedia

Come già per la pittura, proprio nel ritratto fotografico, scopriamo la scelta della società intellettuale, poi anche quella piccolo borghese, di mettersi in scena definendo essi stessi come esser ricordati.


Fonte Wikipedia

In effetti, le attrezzature e i materiali sensibili, non permettevano certo la realizzazione di istantanee – almeno fino alla diffusione del progetto realizzato da Oskar Barnack. All’epoca, prima condizione per realizzare una fotografia era fermare il soggetto, oltre che con la sua collaborazione, attraverso una serie di sostegni che permettevano di mantenerlo sufficientemente immobile per i minuti necessari all’esposizione della lastra.


Fonte Wikipedia

L’atto della macchina fotografica di bloccare il soggetto, per sempre, era propiziato e reso cosciente dalla pratica materiale realizzata nello studio verso i soggetti fotografati.
In effetti, l’immobilità, quale caratteristica topica della fotografia, rinvia, per altro, alle radici profonde dell’azione fotografica: fermare il tempo1.
Ontologico, dunque, inferire che il tempo di posa influisce direttamente nei risultati fotografici, specialmente, in quelli che simulano soggetti viventi.


Fonte Wikimedia

A questo proposito, nel ritratto, possiamo classificare diverse scuole; tutte hanno realizzato ottimi risultati. Per sintetizzare, un ritratto si può realizzare in luce naturale, oppure, artificiale, la quale può essere continua o flash2. Sarà, quindi, scelta del fotografo, in base al soggetto, alle necessità della comunicazione da realizzare, del contesto ambientale, attrezzature, etc., scegliere quale tecnica, ovvero, quale filosofia, adottare. Oggi, molto spesso, alcuni stilemi sono direttamente influenzati dagli automatismi, dalle comodità funzionali utili ad ottenere un’immagine rapidamente. Quindi, il flash è diventato uno strumento necessario in ogni contesto poco luminoso, sempre comunque in grado di standardizzare la condizione ambientale per temperatura di colore e illuminazione della scena.

Avedon, pioniere dell’uso dei primi flash elettronici, aveva accolto i primi lampeggiatori quali strumenti per uscire dallo studio e portare le modelle nella realtà quotidiana. In questa scelta possiamo ritrovare con coerenza tutte le radici dei suoi studi filosofici universitari. Non altrettanto scelgono, forse, i moltissimi che, da quanto possiamo osservare nei ritratti realizzati con il flash quasi in asse con l’obiettivo, (nella migliore delle ipotesi con la funzione anti occhi rossi inserita, oppure, con la parabola rivolta altrimenti che non frontalmente), interpretano l’uso della luce flash come un obbligo tecnico dettato soltanto dalle circostanze luminose. Ecco, proprio in questi casi, l’effetto di appiattimento, oltre ad essere amplificato quando uno sfondo si trova vicino al soggetto, (l’ombra che si produce costruisce una sagoma bidimensionale piatta che segue i contorni del soggetto), non è solo il prodotto della scelta della luce. L’istantanea, che nel caso del flash elettronico di piccola potenza significa un’esposizione tra 1/8000 e 1/12000 di s., nel bloccare il tempo, coglie frammenti non necessariamente percepibili all’occhio umano.


Fonte Wikipedia

Questo fattore, di per se interessante quando si pone in termini di voluta ricerca, lascia l’apprezzamento del risultato ad un momento successivo al tempo dello scatto, ovvero, quando avviene la constatazione dell’effetto prodotto3. Ne consegue che, con il flash, il controllo sostanziale dello sguardo fotografato può avvenire in funzione dell’esperienza maturata in questa particolare tecnica4, abilità che non è affatto difficile coltivare a maggior ragione con la fotografia digitale.

Altra cosa è il ritratto in luce naturale, e nello specifico, quello realizzato con un tempo di posa lungo.

Innanzi tutto, è esiziale scegliere quali soggetti possono essere adatti a questo tipo di ritratto. I soggetti poco collaborativi sono, ovviamente, da escludere. Quindi, si pone il problema della temperatura di colore. La scelta di utilizzare le fotocamere in posizione auto w.b., per quanto la tecnologia abbia fatto notevoli progressi, non è sempre felice. Procedere ad un puntuale bilanciamento del bianco manuale, comunque, è ragione di migliori risultati5. Inoltre, le esposizioni superiori ad un secondo propongono tutte le problematicità dei sensori collegate alla latitudine di posa. In questi casi, le differenze tra i vari tipi di sensori diventano particolarmente significative e valorizzano in modo pieno le migliori fotocamere presenti sul mercato.
Infine, gli obiettivi: nel ritratto con tempo di posa lungo, l’inevitabile micro mosso, produce un effetto molto simile alle costosissime focali a fuoco morbido. I contorni dei visi, con soggetti mediamente collaborativi, con pose intorno ai dieci secondi, pur restando perfettamente distinti, sfumano il necessario utile a ridurre le imperfezioni della pelle. I flash, invece, come noto, essendo in origine luci concentrate, esaltano, salvo opportune schiarite, ogni dettaglio della pelle. In effetti, rifacendosi alla ritrattistica dell’inizio dello scorso secolo, le ottiche non avevano certo caratteristiche lontanamente paragonabili ai nostri obiettivi. Questo progresso tecnologico, favorevole sotto moltissimi punti di vista, ha portato la fotografia in una sorta d’iper realtà, in casi estremi, con formati delle pellicole, in qualche caso Polaroid, di così grande formato, tali da rendere apprezzabili dettagli altrimenti non percepibili. Come già detto, quando questo è  il portato di una scelta, possibilmente culturalmente supportata, troviamo ottime ragioni per apprezzare la creatività tecnica congiunta allo stile del fotografo. Invece, quando il dettaglio è conseguenza automatica incontrollata, vale la pena soffermarsi per valutare quanto di questo dettaglio è necessario, utile, oppure, dannoso. Talvolta, la ricerca dei segni del tempo sul viso restituisce la personalità del soggetto fotografato. Il punto non è cancellare i segni del tempo attraverso le lunghe esposizioni. Ma è proprio a partire da questi tempi di posa che lo sguardo cambia profondamente, introducendo una introspezione lontanissima dalla dimensione consumistica dell’immagine. Anche i soggetti apparentemente più lontani dimostrano, sorprendendo talvolta anche se stessi, densità dello sguardo difficilmente raggiungibili altrimenti.

COME PROCEDERE PRATICAMENTE:
In una prima fase, per apprezzare un risultato di massima, si può procedere, macchina sul cavalletto con impostazione priorità diaframmi al valore tutto chiuso, soggetto ad una distanza di tre, quattro metri, focale 80mm,  mantenendo il white balance automatico, con sensibilità 100 iso, fuoco in manuale, in un ambiente illuminato con luce attenuata.
Consiglio i primi scatti con tempi di posa compresi tra uno e cinque secondi – mediamente sostenibili da qualunque soggetto adulto appoggiato da qualche parte, senza particolari ausili.
Poi, se la ricerca proposta è sufficientemente stimolante, fermo restando che la macchina deve trovarsi sul cavalletto, con sensibilità 100 iso, fare il w.b., utilizzare la gestione dell’esposizione in manuale. Montare un filtro grigio neutro per poter scattare in qualunque condizione luminosa scegliendo il diaframma solo in funzione della profondità di campo desiderata. Provate le pose superiori ai trenta secondi fino a raggiungere il limite del vostro soggetto. Per altro, sottolineo che il micro mosso non è facilmente apprezzabile dallo schermo delle fotocamere per questioni di definizione dell’ingrandimento proposto. Una migliore valutazione si può fare solo in fase di analisi in post produzione, praticando una visione di dimensioni adeguate alla stampa. Per le pose di soggetti inanimati, ispirati al fotografo del film di Coppola Road to Perdition è necessario ricreare le condizioni dei fotografi dell’inizio del secolo scorso, cioè utilizzare sostegni, o pose comode a distanze adeguate.

La composizione fotografica

La mia scelta editoriale ovviamente, data la dimensione dell’argomento, è stata quella di sintetizzare oltremodo un pensiero efficace sulle basi che sostengono le scelte compositive fotografiche. Quindi, anche se l’esperienza della materia, nel tempo, ha costruito un funzionale riscontro, essa compensa solo parzialmente il rischio di tralasciare aspetti, in questo contesto, importanti.
Naturalmente, la forma del blog, l’implementazione dei materiali e le direzioni che prenderanno i Vostri interventi, permetteranno di approfondire quegli aspetti che si scopriranno più interessanti.

I sensi stabiliscono il contatto tra noi e l’ambiente circostante. La vista è un fenomeno fisiologico automatico dal quale è necessario escludere la comunicazione in quanto atto conseguente la valutazione delle percezioni ricevute. La percezione visiva e il significato attribuito allo sguardo, invece, sono passaggi collegati, tra l’altro, dalla psicologia della percezione, dai dati culturali personali e di sistema sociale, dai fenomeni legati alla durata.
Inizialmente, a fronte di una situazione tridimensionale, l’interpretazione dello spazio identifica un’organizzazione di cosa possiamo definire alto o basso, sinistra o destra, verticale o orizzontale. Naturalmente, considerazioni quali il senso di lettura, (per il mondo occidentale da sinistra a destra), interferiscono profondamente con l’identificazione dei concetti basici della composizione. Ne deriva che, per una consistente parte del pianeta, la direzione dei flussi compositivi sono, in radice, opposti a quelli che per noi sono più comuni. Esistono, comunque, concetti validi per tutti: ad esempio, la linea orizzontale è spesso quella linea coincidente con la linea dell’orizzonte, oppure, la linea verticale rappresenta il miglior tragitto per una massa libera di muoversi nello spazio.
Esiste, dunque, una specifica relazione monocanale che determina lo sguardo tra l’osservatore e lo spazio tridimensionale circostante.

Influisce sulla visione il concetto di movimento. Percorrere lo spazio significa tra l’altro considerare il tempo come fenomeno di durata deleuziono. Le implicazioni, partendo dal cubismo nell’arte figurativa e dal cinema delle origini in quanto mostrazione, sono i diversi modi di fruire lo spazio. L’esperienza, la memoria della visione, costituiscono un archivio situazionale che viene richiamato alla coscienza di fronte ad ogni nuova esperienza quale termine di confronto. Tra l’altro, quando osserviamo un’immagine schermica o stampata che simula verosimilmente la realtà, confrontiamo quanto immagazzinato precedentemente per scoprire quanto di familiare, heimlich, in essa troviamo. Solo fenomeni di durata possono permettere di trasmettere completamente la sensazione di movimento. Dal punto di vista fotografico, a maggiore ragione, sarà poi questione di considerare la composizione quale sorta di montaggio interno dello spazio del formato, fatto che implica una gestione della durata della percezione dei vari elementi della visione attraverso i segni inseriti nell’inquadratura.
Infine, la fisiologia stereoscopica dello sguardo umano permette una limitata percezione della tridimensionalità, visione che, comunque, viene arricchita dall’esperienza fisicamente già vissuta della profondità dello spazio. Le ultime tendenze, ad esempio, della gestione 3d cinematografica, realizzano composizioni che introducono nella fotografia del film aspetti di restituzione delle forme prima non considerarti.

Il panorama visivo è troppo complesso per poter essere analizzato nel suo insieme. Per studiarlo, inizialmente, è necessario ridurre la visione agli elementi originari che la costituiscono.
Le figure geometricamente semplici sono il triangolo, il quadrato e il cerchio. La combinazione di queste figure piane permette la figurazione di qualunque forma.

Per poterle gestire é utile identificare quale di esse é la più dinamica e quale la più statica.

Nell’affermare che il triangolo é la figura più dinamica, il quadrato quella più equilibrata, il cerchio la più statica, introduco quale sintetica spiegazione le stesse figure geometriche ruotate nello spazio.

Evidente, il cerchio non muta, quindi, rimane perfettamente identico nella percezione. Esprime, così, la massima staticità percettiva. Il triangolo, invece, può assumere una quantità notevole di posizioni nello spazio, alcune delle quali, particolarmente dinamiche. Il quadrato mosso nello spazio propone solo una figurazione che diviene romboidale mano a mano che la figura ruota. Tra le tre figure, il quadrato rappresenta un forma d’equilibrio tra  staticità e  dinamicità.

Dal punto di vista compositivo, attraverso un mirino,  le forme sono sempre inserite nel formato.
La cornice é una soglia che contiene la composizione. Alcune figure retoriche trattate in altra parte di questo sito permettono di identificare quanto percepiamo direttamente dallo sguardo e quanto, pur trovandosi fuori campo, resta nella visione della scena. Anche quello che é fuori quadro entra nella composizione dell’immagine. Ad esempio, gli sguardi delle persone sono fattori di puntamento del  flusso della percezione rispetto a quanto contenuto nel formato. Se gli sguardi si muovono fuori scena, quel fuori campo prenderà una consistenza certa per l’osservatore che, così, avrà coscienza dell’esistenza di uno spazio interagente con i personaggi oltre il fotogramma concretamente visibile.
 
Nel riconoscere una forma compositiva, dovremo identificare le componenti che la realizzano. Una forma é, molto spesso, il prodotto di altre forme che interagiscono tra di loro. L’interazione ha delle implicazioni. Ecco un esempio:

La luminosità del grigio varia secondo la posizione nello spazio.

L’interazione delle forme, l’interazione dei colori e quanto conseguente, deve considerare i fenomeni ottici e di percezione e di persistenza retinica.


Fissando per alcuni minuti la prima figura, spostando lo sguardo su quella accanto
si potranno vedere gli effetti della persistenza retinica.

Il cerchio prima giallo apparirà cyan, ovvero del suo colore complementare. La vicinanza delle forme semplici costruisce le forme più complesse producendo una visione che non é la semplice somma dei singoli fattori.

Apparente distorsione
delle linee rette.

Le figure geometriche fondamentali, plasticamente, sono le più semplici. La gestione  dello spazio del formato rappresenta il passaggio da entità geometriche pure a comunicazione attraverso le immagini.
La base per ogni ragionamento consiste nel comprendere le implicazioni della divisione in terzi del formato.

Ritengo strumentale, in questa sede, rinviare altrove, la trattazione delle caratteristiche del rettangolo aureo limitandomi a constatare che,  non solo considerando la nascita del formato Leica, esso è particolarmente diffuso in fotografia.
La divisione delle proporzioni nelle classiche tre parti, in verticale e in orizzontale, identifica negli incroci di queste rette quelli che sono i principali punti forti dell’immagine. In particolare, quello in alto a destra, (sia nel formato verticale che in quello orizzontale), risulta essere il punto più interessate.


Divisione in terzi del formato.

Comunque, quando si tratta di disporre le componenti dell’inquadratura nel formato, non necessariamente gli elementi scelti per una specifica enfasi saranno efficaci quanto appaiono ad occhio nudo.
Le ombre acquisteranno un’importanza che non hanno nella vita reale quasi fossero una componente solida della visione, i colori richiameranno l’attenzione combinando l’effetto di avanzamento o profondità della scena, gli sfondi potranno catturare la stessa attenzione del primo piano.
Sarà necessario gestire questi elementi all’interno della cornice dello scatto.

In effetti, mi ritrovo in quanti considerano la composizione semplicemente una questione di flusso e di equilibrio.

IL FLUSSO

L’occhio esplora un formato partendo dal basso a sinistra e, in generale si muove attraverso l’immagine da sinistra a destra. Tutti gli elementi devono essere organizzati per facilitare questo movimento.
Le principali linee che si spostano da sinistra a destra sono un percorso facile da seguire per l’occhio, ma devono condurre al punto d’interesse principale dello scatto.


In questa figura diamo allo sguardo qualcosa da seguire facilmente
attraverso una linea che taglia il formato in diagonale.

Per il mondo occidentale, questa é una linea che sale partendo dal basso a sinistra per raggiungere la zona in alto a destra. La crescita verso l’alto porta in se un merito positivo alla composizione. Per questo é molto utilizzata nella comunicazione pubblicitaria.
Se si capovolge il formato, invece, sarà evidente constatare che la stessa linea diventerà una barriera che ostacola la visione.


Ruotare il formato nel senso opposto creerà una barriera.

In questo caso, per il nostro sistema culturale, si tratta di una linea che scende partendo dalla posizione in alto a sinistra per raggiungere quella in basso a destra. Questa diagonale implica una valutazione percettiva negativa di quanto viene composto nel formato.
Ad ogni modo, questa barriera è efficace se la linea in se diviene il dato interessante dell’immagine. Per la comprensione della dinamica dello sguardo, è funzionale immaginare con quale difficoltà un flusso visivo possa muoversi all’interno del formato così tagliato. Lo spazio, aldilà della linea, diventa difficile da gestire, lasciando pensare che potrebbe essere più facilmente riempirlo con  soggetti scuri a bassa definizione.
Naturalmente, ai fini compositivi, scegliere una diagonale o l’altra dipende dall’interazione di altri fattori qui non ancora trattati e da quello che si desidera comunicare.

Adesso proviamo ad immaginare di percorrere fisicamente il formato muovendoci all’interno dello spazio circoscritto iniziando dal basso a sinistra. Si scopre così una sorta di steccato che percorre il formato da parte a parte.


Una barriera orizzontale.

Questa linea rappresenta una barriera che impedisce totalmente ogni movimento verso l’alto. Se non si apre una porta, un’interruzione della barriera, oppure, senza introdurre qualcosa che possa aiutare l’occhio a superare l’ostacolo, essa è insormontabile. Un albero, schematizzato nella figura seguente, potrebbe essere il segno verticale utile per quel passaggio, ma sarà un ponte così importante che sarà necessario dedicare molta attenzione alla gestione della sua collocazione nel formato.


Un soggetto verticale collocato strategicamente può essere
usato per attraversare la barriera.

L’ultimo aspetto del flusso è l’importanza di contenere l’esplorazione dell’occhio all’interno della cornice. Questo si ottiene non solo gestendo le linee che portano fuori dal quadro, ma introducendo una sorta di barriera fisica in alto a destra, in particolare, per contenere lo sguardo.
Per le immagini in bianco e nero si può anche solo scurire l’angolo in alto a destra, oppure, si possono introdurre elementi nella composizione, come ad esempio della vegetazione, per fare in modo che questo lato non sia mai il più leggero dell’immagine.


Per mantenere il flusso dello sguardo all’interno del formato si introducono
delle linee che possano bloccare il movimento verso l’esterno dell’immagine.

L’EQUILIBRIO

Immaginate la parte inferiore e centrale dell’immagine appoggiata su un fulcro.


Una forma d’equilibrio dell’immagine.

L’immagine si sbilancia immediatamente se un unico peso é posto da un lato.


Questa immagine é sbilanciata.

In questo caso, anche se il soggetto occupa i punti forti, il nostro sguardo nel formato persiste davanti al soggetto stesso. Di fatto, l’essenza della visione é contenuta nella parte destra del fotogramma, davanti agli occhi del soggetto della foto.


Compensazione dello sbilanciamento.

In questa figura troviamo la stessa mancanza di equilibrio, ma la direzione dello sguardo del soggetto permette di visualizzare facilmente anche il resto della composizione contenuta nel formato.
In effetti, la direzione in cui i soggetti guardano, oppure, il plausibile movimento di alcuni oggetti verso specifiche direzioni, sono importanti fattori di puntamento della nostra attenzione.

Nella prossima figura, lo squilibrio è introdotto attraverso la comparsa, nel formato, di un secondo soggetto.
Per garantire il bilanciamento, proprio come si farebbe con dei pesi reali appoggiati su un fulcro centrale, un soggetto è spostato più vicino al margine dell’inquadratura. Per equilibrare la componente dimensionale, invece, potrebbe essere necessario più di un contrappeso.


Bilanciamento dei pesi all’interno del formato.

La figura seguente rappresenta la combinazione di quanto sopra. Si tratta di un’inquadratura ben composta secondo tradizionali canoni d’equilibrio. Prego considerare che se si sceglie di inquadrare verticalmente, il risultato presenta un impatto dinamico maggiore. Naturalmente, questa scelta é da compiere in funzione del soggetto della ripresa.


Schema completo.

Se consideriamo un’immagine costruita secondo lo schema sopra raffigurato dovremmo essere in grado di capire velocemente se essa funziona o perché non funziona, e come potrebbe essere migliorata.
E ‘una logica che può essere utilmente applicato attraverso il mirino, a patto che il pensiero non blocchi l’azione dello scatto.
Quanto scritto é uno dei possibili punti di partenza per una personale disciplina figurativa, per questo, deve essere adattata alla specifica modalità creativa di ognuno. Proporre, in questa sede, una logica compositiva basica permette di analizzare le immagini presenti e future attraverso l’estensione dello stesso tipo di ragionamento.
Solide fondamenta permettono di crescere ed estendere la ricerca oltre regole e tradizioni.
 

Pagina Facebook o Profilo Privato? Quale devo usare per la mia azienda?

Con questo articolo spiegheremo le differenze sostanziali tra un profilo privato e una pagina pubblica e illustreremo le potenzialità di quest’ultima che è stata capace di rivoluzionare il web.

Qual è la differenza tra un Profilo Privato e una Pagina Pubblica

Un profilo, lo dice la parola, è un account. Si accede con login e password, ha una Timeline personale con il mio volto come foto profilo e un’immagine di cover che racconta qualcosa di me, delle mie vacanze, dei miei amici o del mio animale domestico. Nel mio profilo Facebook io descrivo i miei stati d’animo, pubblico, condivido e commento i post di altri, esprimo le mie preferenze e stringo amicizie con un clic. Un profilo Facebook costituisce la mia immagine riflessa, la mia identità personale sul web, come fosse un passaporto o un codice fiscale. Non a caso Facebook permette di avere un solo account e quando, in fase di iscrizione, sottoscriviamo la policy , Facebook ci inviata a riflettere sul fatto che il profilo privato non può essere usato a fini commerciali in quanto si tratta di un account individuale a uso personale.

Creare un profilo privato per un azienda non è proibito da Facebook e infatti ne esistono ancora molti (heime! ndr) ma è concettualmente sbagliato. Poniamoci una semplice domanda: come fa un account di un’ azienda o prodotto a crearsi un pubblico? Deve chiedere l’amicizia! E che un’azienda o un prodotto si proponga “chiedendo l’amicizia” a caso a questo o quell’utente, non è un buon biglietto da visita! Fa un po’ venditori porta a porta o meglio dilettanti! Inoltre è un gesto invadente, percepito il più delle volte come sgradevole, traducibile con un bel “Iniziamo male”. Ancor peggio può succedere di navigare un sito web e cliccando sul link a Facebook essere reindirizzato al profilo personale di quell’azienda, chiedere quindi l’amicizia e sperare che accettino per sapere qualcosa in più! Detestabile, vero?

Mondi Possibili: crea una Pagina Facebook e avrai già vinto!

A differenza dell’account, per parlare di pagina pubblica la prima parola che viene in mente è strumento. La pagina pubblica è uno strumento. Uno strumento a servizio degli utenti e uno strumento a servizio dell’azienda per perseguire i sui scopi commerciali e costruire il proprio marketing on line.

I vantaggi principali dell’avere una Pagina Pubblica sono infiniti. Proviamo a spiegarne qualcuno.

  • Una Pagina Pubblica è indicizzabile dai motori di ricerca

Le Fan Page di Facebook sono indicizzate da Google, Yahoo, Bing e tutti i motori di ricerca. Il che significa che i contenuti che sceglieremo di pubblicare nella nostra pagina saranno visibili anche fuori da Facebook e digitando alcune parole chiave in motore di ricerca, potrebbero apparire nella serp di un utente che scoprirebbe la nostra azienda o il nostro marchio. Naturalmente ogni azienda che si rispetti vuole indirizzare il traffico al propio sito web ma quale occasione di visibilità costituisce essere presenti anche in altre forme? La risposta è: infinite possibilità!

  • Pubblico illimitato

La quantità di amici che possiamo accumulare con un profilo privato, oltre a non essere targettizzato per interessi, è anche limitato ai 5mila utenti. Con una pagina pubblica invece non c’è limite ai fans e se la nostra comunicazione è calibrata e rispecchia gli interessi del nostro pubblico, il nostro numero di likers è destinato a crescere senza alcun tipo di limitazioni. E’ un bel vantaggio se pensiamo alla nostra pagina come a una piccola, grande comunità che interagisce e parla intorno alle nostre comunicazioni magari condividendo i nostri contenuti e facendosi quindi portavoce del nostro messaggio!

  • Pagina Pubblica e Tutela della Privacy 

A proposito di tagging e privacy,  va sottolineato che con una pagina pubblica il pubblico si sente tutelato perchè la pagina è uno strumento che salvaguardia la privacy dei likers in quanto non è possibile “andare a sbirciare” nei profili, taggare o citare questo o quel fan. Nella stessa ottica, solo chi appartiene alla comunità perché ne è fan, può citare la pagina attraverso il tag e questo rappresenta un ulteriore beneficio che porta visibilità positiva al  machio o all’azienda.  Allo stesso tempo le pagine sono gestite da amministratori e quindi nel creare una pagina si può mantenere separato il proprio profilo privato, continuando la propria attività di utente con amici e parenti senza che questi siano costretti a trovare tra gli aggiornamenti messaggi promozionali e pubblicità.

  • Facebook Insight

Ogni pagina pubblica possiede Facebook Insight ossia lo specchio del comportamento del pubblico sulla pagina. Facebook Insight è paragonabile a Google Analytics e per ogni nostra azione ci da il ritorno della stessa, in termini di interazione del pubblico (Mi Piace, Commenti, Condivisioni), portata dei post, frequenza e numero di clic al sito web. Tramite le Insght siamo in grado di targettizare il nostro pubblico in base alla provenienza geografica,la linuga, il sesso e l’età. Non solo. Le Insight ci forniscono dati di traffico attendibili indicandoci giorni della settimana e orari in cui il traffico alla pagina è più o meno intenso. Questo permette di calibrare la comunicazione e ottimizzare la potenzialità di ogni singolo post. fornendo agli utenti la comunicazione più pertinente e attraente.

  •  Costruire un pubblico interessato attraverso Facebook Ads

In ultimo e chiudiamo in bellezza: Facebook Ads!

Il più grande vantaggio di avere una fan page è costituito dalla possibilità di fare inserzioni a pagamento e costruire un pubblico targettizzato sugli interessi. Il nostro pubblico ci ha scelto attraverso l’espressione di una preferenza. Attraverso un “Mi Piace”. Facebook Ads rappresenta la più rivoluzionaria opportunità di traffico proprio perchè ha scardinato il dogma delle parole chiave sostituendolo con quello degli interessi. Inoltre Facebook Ads, oltre ad essere la piattaforma on line più targettizzata possibile, è meno costosto di Google AdWords e soprattutto propone un messaggio pubblicitario che coglie un interesse passivo che viene risvegliato in maniera latente difronte alla nostra inserzione. Il mindset dell’utente social è quello di chi sta impiegando il suo tempo libero. L’utente social commenta e condivide un post o posta a sua volta un’immagine e socializza dentro Facebook con gli amici e gli amici degli amici. Questo non si significa che l’utente non sia interessato all’acquisto di un prodotto o alla ricezione di un messaggio commerciale. La sfida sta proprio nel riuscire a cogliere questo interesse in punta di piedi!
Per questo motivo la qualità della nostra comunicazione sarà essenziale. Che si tratti di inserzioni pubblicitarie o post promossi, che l’obiettivo sia quello di aumentare il numero di likers o dirottare il traffico su un sito web, l’essenziale sta nel realizzare una comunicazione originale, creativa e virale che sappia catturare l’attenzione di un utente e portarlo verso di noi. Ogni volta che saremo capaci di fare questo, avremo realizzato una conversione!

PS: L’ultima cosa! Per confondere ancora di più le idee degli indecisi, Facebook ha introdotto per i profili privati i “seguaci” o follower. Avete notato la tab che compare quando siamo in attesa di un feedback dopo una richiesta di amicizia? Ecco, quando qualcuno decide di lasciare in sospeso o non accettare la nostra richiesta di amicizia,  diventiamo automaticamente sui “seguaci”. Questo significa che riceveremo alcuni dei suiaoggiornamenti in neew feed e potremo commentare e dare un like a suoi post. Questa funzione, molto utilizzata da quegli utenti che hanno raggiunto il tetto dei 5mila amici, è comunque un po’ pericolosa perché abbatte il concetto di privacy. Comunque, per farla breve. Il follower è anche meno di un amico quindi non paragonabile a likers.

A questo punto non ci resta che augurarti buon lavoro! Speriamo che queste indicazioni ti saranno utili!

Fonti:

Avinash Kaushik – Best Social Media Metrics: Conversation, Amplification, Applause, Economic Value

Jeff Bullas: 10 Step for your first 1000 fans on Facebook

Lisa Kalner Williams: A Guide to maxime your new Facebook Fan Page Timeline

Nascita della fotografia

Per iniziare ad entrare nel mondo della fotografia penso sia importante guardarsi indietro: iniziamo il nostro percorso da qualche breve appunto di storia, per percorrere i più importanti sviluppi tecnici che hanno portato alla possibilità di scattare una fotografia. Noteremo come dal 1826 la fotografia e le macchine fotografiche non sono cambiate nella loro struttura fondamentale.
Con il tempo e la diffusione della fotografia si sono ottenuti materiali ed apparecchi sempre più perfezionati e sofisticati, ma la tecnica di base dei primi fotografi è rimasta inalterata nella sostanza. E anche oggi, con la tecnologia digitale che ha oramai sostituito i materiali sensibili ed i rullini, la sostanza dal punto di vista ottico è rimasta immutata. Insomma, in circa 200 anni non c’è niente di nuovo sotto il sole a livello di principio: di nuovo ci sono gli uomini, la cultura, le abitudini e le conoscenze. Quello che è cambiato nel corso degli anni è il nostro rapporto con le immagini fotografiche.

La fotografia nasce da tante vicende differenti, dalla combinazione di tanti elementi, che apaprtengono da una parte alla storia della pittura e della cultura dell’immagine, dall’altra alla fisica e all’ottica.
Alla nascita e all’evoluzione della fotografia hanno contribuito numerosi ri­cercatori con geniali intuizioni. I principi ottici e chimici su cui è basato il processo fotografico erano conosciuti anche nell’antichità, ma solamente nel corso del ‘700 e dell’800 sono confluiti in una sintesi che ha permesso di registrare, svilup­pare e fissare per la prima volta un’immagine su un supporto.

LA CAMERA OSCURA

La nascita della fotografia è legata allo sviluppo della strumentazione tecnica: si parte dalla camera oscura: già Aristotele, filosofo greco vissuto ad Atene tra il 384 e il 322 a.C., affermava che realizzando un piccolo foro su una parete di un ambiente oscurato, un pennello luminoso disegna sulla parete opposta l’immagine capovolta dell’am­biente esterno. Si dice poi che gli Arabi verso l’annoi Mille utilizzassero le camere oscure per realizzare dei disegni.
Agli anni intorno al 1400 abitualmente si fa risalire non tanto l’invenzione tecnica quanto l’origine di una differente concezione di un certo modo di disegnare lo spazio. Si diffonde un sistema di rappresentazione basato sull’organizzazione geometrica e sullo studio della prospettiva, che vede nella serie di quadri e disegni sulla Città Ideale di Piero della Francesca una delle migliori e più convincenti rappresentazioni. Sembra però che i pittori del ‘400 non utilizzassero la camera oscura per disegnare, ma che questa sia il risultato di questa nuova impostazione della percezione della realtà.
camera_oscura-funzionamento
Negli anni a seguire gli artisti hanno iniziato ad utilizzare del­le stanze oscurate nelle quali entravano per ritrarre il paesaggio circostante. Questi strumenti avevano un grosso inconveniente: erano di scarsissima maneggevolezza.
Solo verso la seconda metà del XVII secolo fu predisposto un tavolo da disegno portatile secondo il principio della camera oscura: si trattava di una grossa scatola di le­gno, con il lato ante­riore era chiuso da una lente. L’artista ricalcava l’im­magine “ripresa” su un foglio di carta se­mitrasparente, appog­giato a un vetro posto sulla parte superiore. Il risultato era piuttosto impreciso per la cattiva qualità degli obiettivi e richiedeva una discreta abilità per essere riprodotta da un disegnatore. Questa strumentazione ha fatto parte per diversi secoli del corredo di pittori e artisti, sviluppando una storia della rappresentazione della realtà che arriva fino ai giorni nostri.

COME FISSARE UN’IMMAGINE

II primo passo per fissare l’immagine che veniva riprodotta della scato­la oscurata, senza doverla ricalcare a mano, si fece nel 1727 con la dimo­strazione sperimentale della sensibi­lità alla luce del nitrato d’argento rilevata dal tedesco J.H. Schulze.
Il merito di aver ottenuto la prima immagine durevole, cioè inalterabile dalla luce, è del francese J.N. Nièpce (1765-1833). Sul dorso di una cassetta di le­gno con l’interno verniciato in colore nero egli inserì una lastra cosparsa di materiale sensibile alla luce. Nel 1826 Nièpce ha scattato quella che viene considerata la prima fotografia del mondo (la foto di apertura dell’articolo). Niépce chiamò questo processo eliografia: il tempo di esposizione era di circa 8 ore. Solo nel 1839 l’astrono­mo inglese Herschel propose il termine fotografia, che divenne subito di uso universale.
Daguerre-foto_boulevard_du_Temple
 È stato Louis Daguerre (1787-1851) a perfezionare il procedimento, chiamato dagherrotipo proprio dal nome del suo in­ventore, arrivando ad ottenere le prime immagini. Si tratta di piccole fotografie impresse su una lastra di metallo sensibilizzata, sulla quale la luce agiva lasciandoil segno del suo passaggio.
A sinistra c’è una delle prime fotografie di Daguerre, scatta a Parigi con un tempo di posa relativamente breve: mentre la posa di Nièpce era lunghissima, intorno alle 8 ore, Daguerre riesce ad ottenere l’immagine in pochi minuti, attraverso uno studio approfondito sulle reazioni chimiche, con un risultato molto preciso e definito.
Il dagherrotipo ha immediatamente grande fortuna, anche perchè negli anni si riescono a ridurre ancora i tempi di posa. La fotografia si diffonde in tutto il mondo ad una velocità incredibile. Una volta resa pubblica questa scoperta, il ritratto fotografico si diffuse rapidamente, meno costoso di quello commissionato a un pittore e di rapida esecuzione. Per la prima volta l’uomo ha una immagine fedele di se stesso, ancora un pò imprecisa, ma è una delle grandi meraviglie della prima metà dell’800.
Purtroppo il dagherrotipo era un esemplare unico, dal quale non era possibile ricavare delle copie. In seguito l’inglese William Talbot (1800-1877) sviluppò ancora il procedimento, mettendo a punto una tecnica che consentiva la stampa di un numero illimitato di copie par­tendo da un unico negativo e garantendo una maggior definizione dei dettagli nelle fotografie.
La fotografia nei primi anni di sua reale dissusione è come una persona che comincia a vedere per la prima volta: e da subito si sviluppano due filoni precisi. Il primo filone rivela uno sguardo nuovo, di meraviglia nei confronti del mondo, del paesaggio, dell’architettura, del mondo nella sua complessità e bellezza. La fotografia parte alla scoperta dell’Oriente, della CIna, del Giappone: mondi lontani che iniziano ad essere conosciuti senza dover essere esploratori. Per gli americani poi la macchina fotografica diventa sopratutto uno strumento per appropriarsi del territorio. L’America non ha una lunga storia alle spalle e in assenza di una tradizione i fotografi inizino per primi a scrivere la storia dell’America. Insomma, la fotografia inizia ad essere un modo di apreire gli occhi sul mondo.
Il secondo filone tende alla creazione di uno sterminato catalogo e di un nuovo modo di vedere l’umanità: il grande mito di rivedersi e di riscrivere la propria storia personale, anche attraverso le immagini, attraverso gli album di famiglia che si diffondono subito dopo la scoperta della fotografia.

L’EVOLUZIONE DELLE FOTOCAMERE

La grande diffusione successiva della fotografia è legata allo sviluppo delle fotocamere.
Una delle evoluzioni più importanti delle macchine fotografiche ha riguardato il formato del fotogramma. II fotografo dell’800 doveva porta­re con sé un’attrezzatura di peso consi­derevole: oltre alla macchina fotografi­ca e al cavalletto, aveva bisogno di un intero laboratorio fotografico mobile, sotto forma di tenda o carrozza oscura­bile. Era indispensabile possedere no­zioni di chimica e ottica, una grandissi­ma abilità manuale, per preparare sul posto le lastre, sensibilizzarle e, dopo l’e­sposizione, svilupparle e fissarle. Con il tempo, attraverso la ricerca sulle emulsioni, migliorate nella resa dei dettagli, e con gli obiettivi sempre più evoluti, è stato possibile ridurre il formato del negativo da cui trarre l’ingrandimento.

george-eastmanNel 1884 l’americano George East­man fabbricò le prime pellicole in rullini da 24 pose. Nel 1888 lanciò sul mercato un nuovo rivoluzionario apparecchio di piccole dimensioni (solo 18 cm di lunghezza), che conteneva un caricatore da 100 pose. Dotato di fuoco fisso e di una velocità di ottu­razione vicina a 1/25 di secondo, dopo l’ulti­mo scatto doveva essere rimandata alla casa produttrice che sviluppava le 100 foto e ricaricava la macchina con un altro rullino. Costava 25 dollari e veniva reclamizzato con lo slogan «Voi pre­mete il bottone, noi faremo il resto». Venne chiamato con un termine onomatopeico divenuto famoso nella storia della fotografia: Kodak. Eastman introdusse nel 1891 le pri­me pellicole intercambiabili a luce diurna. Dalle pellicole su carta passò poi nel 1889 alle pellicole su cellu­loide.

Nel 1904 Auguste e Louis-Jean Lu­mière (pionieri della cinematografia) brevettarono un fortunato procedi­mento di fotografia a colori.

barnack_prima-leicaNel 1923 venne immessa sul mercato una nuova macchina fotografica, leggera e versatile: la Leica progettata da Oscar Barnack. Questa fotocamera è davvero importante perché ha segnato l’ingresso del formato 35mm nella fotografia: 35mm indica la larghezza della pellicola, mentre 24x36mm indica il formato del fotogramma impressionato (per cui sui 35mm della pellicola per fotografie ci devono stare “solo” i 24mm del lato corto del fotogramma).
Il formato 35mm ha consentito di costruire macchine leggere, di piccole dimensioni e relativamente economiche, permettendo di ottenere immagini di qualità adeguata alla gran parte delle applicazioni. La leggerezza ne ha fatto l’attrezzatura d’elezione per il fotogiornalismo, la foto sportiva e di viaggio.

Negli anni a seguire assistiamo allo sviluppo della tecnologia reflex. L’uso di uno specchio per raddrizzare l’immagine che passa attraverso la lente della camera oscura, di cui come abbiamo visto artisti e pittori si servivano come ausilio al disegno dal vero era noto da tempo, ma nel 1936 approdò al 35mm con la Kine Exacta.

Il modello reflex 35mm si è imposto negli anni, soprattutto con il boom della fotografia degli anni Sessanta e la capacità costruttiva dell’industria giapponese. La forza dei modelli reflex sta tutta nel mirino: con altri tipi, ad esempio a telemetro, il campo visivo non corrisponde a quello visualizzato attraverso l’obiettivo, specialmente alle brevi distanze. Il sistema di visione reflex non si limita a facilitare l’inquadratura e la messa a fuoco, ma permette di studiare e perfezionare la composizione nel modo migliore, dato che dal mirino si può osservare quello visto dall’obiettivo al momento della ripresa.
Da allora il sistema si è sviluppato enormemente, ma il concetto è rimasto immutato anche nelle più recenti versioni digitali.

IL PROGRESSO TECNOLOGICO

Nel corso degli anni del secolo scorso assistiamo ad un notevole sviluppo tecnologico della strumentazione fotografica.
Miglioramenti delle prestazioni de­gli obiettivi si ebbero dal 1903 con gli obiettivi prodotti dalla Zeiss. Molti progressi ci furono nell’ambito del siste­ma reflex. La prima macchina reflex binoculare, con un obiettivo per la ripresa, uno per l’inquadratura e la messa a fuoco venne realizzata nel 1865 da H. Cook. Alcuni ricercatori si dedicarono a sperimentazioni sulla fotografia istantanea, ossia sviluppa­re la pellicola all’interno dell’appa­recchio fotografico, anziché nella ca­mera oscura: La fotografia istantanea divenne realtà nel 1947 grazie al chi­mico Edwin Herbert Land, inventore del sistema Polaroid.Sony_Mavica-primo_sistema_digitale
Nel 1981 il fondatore della Sony sconvolse il mondo con l’annuncio della Mavica (magnetic video camera), una reflex che consentiva di registrare su un floppy disc immagini a colori che potevano essere stampate, trasmesse via telefono o riprodotte su uno schermo tv. La Mavica anticipò di 20 anni i tempi, anche se già nel 1976 la Kodak disponeva di un prototipo digitale che tenne segreto per anni: fotografava senza pellicola e la Kodak era il più grande produttore di pellicole.
kodaknikon_f3_prima_reflex_digitale_pro
 La prima reflex professionale fu introdotta nel 1991 da Kodak su telaio Nikon F3, con un sensore da 1.3 megapixel ed un costo esorbitante. Nel giro di pochi anni però i sensori digitali hanno iniziato a fare passi da gigante: già con quelli da 3 MP si è cominciato a parlare di qualità digitale.
E così si è arrivati ai giorni nostri dove l’utilizzo della pellicola è praticamente scomparso, almeno se consideriamo la diffusione “popolare” della fotografia e il binomio fotografia – digitale è in pieno sviluppo e perfezionamento.

L’importanza di avvicinarsi al soggetto fotografato

Perché le foto ravvicinate sono migliori?

Penso che due siano i vantaggi più importanti che derivano dal fotografare a distanza ravvicinata.

Quando scattiamo una foto da molto vicino, più vicino di quanto ci sembrerebbe istintivamente corretto, innanzitutto creiamo maggiore intimità con il soggetto, si è dentro la scena. Questa intimità verrà percepita anche da chi osserva poi la nostra foto. È un concetto che si applica sia a soggetti animati che inanimati. Una foto più intima, fa percepire una comunanza con il soggetto, illude quasi di poterlo toccare.

In secondo luogo, un soggetto da vicino viene ingrandito, quindi potremo apprezzarne maggiormente i dettagli. Quando il soggetto è un essere umano, potremo interpretarne e coglierne più approfonditamente le emozioni, potendo distinguere meglio l’espressione del volto. Quando il soggetto è inanimato, ad esempio un pezzo di artigianato, potremo studiare con precisione le venature del materiale che lo compongono, le sottili variazioni delle forme, ecc.

”Se la foto non è buona, vuol dire che non eri abbastanza vicino.”

Questa citazione, attribuita a Robert Capa, sono un po’ estreme, ma crescendo nella fotografia, vi accorgerete di quanto sono vere. Certo, se la nostra unica passione è la fotografia di paesaggio, risulta difficile applicare un concetto del genere. Però, se considerate, tra gli altri, i ritratti (di singole persone o gruppi), le nature morte, la fotografia di strada, le foto di animali, vi sarà presto evidente come essere vicini ai soggetti delle nostre foto le renda molto migliori, molto più potenti, più intriganti.

È una forma mentis

Dalla mia esperienza e dall’osservazione di come molte persone scattano le foto, mi sembra che, istintivamente, qualunque fotografo principiante tenda a scattare le foto da troppo lontano rispetto a come dovrebbe. Non so perché questo accada, ma anche osservando molte delle foto condivise su Internet da fotografi principianti, si nota che spesso una minore distanza dal soggetto avrebbe migliorato drasticamente il risultato finale.

Quindi, è importante che, nei primi tempi, ogniqualvolta scattiamo una foto pensiamo:sono abbastanza vicino? Talvolta, la risposta sarà sì ma saremo comunque in errore. Anche quando pensiamo di essere abbastanza vicini, proviamo ad avvicinarci, potrebbe essere che il nostro istinto non sia ancora ben allenato.

Chiaramente, è importantissimo sapere qual è la giusta distanza che ci fa essere abbastanza vicini. In inglese si usa il modo di dire “fill the frame”, ovvero “riempire la cornice”. La cornice di cui si parla è il riquadro dell’inquadratura. Il criterio da usare in questi casi è quindi quello di riempire l’intera inquadratura con il soggetto della nostra foto. Ad esempio, se stiamo eseguendo un ritratto, riempiamo l’inquadratura con il volto della persona inquadrata o con il suo busto, a seconda del risultato che vogliamo ottenere, lasciando poco spazio attorno. Allo stesso modo, se stiamo fotografando un gruppo di persone, evitiamo di lasciare troppo spazio attorno e sopra alle loro teste. Talvolta, la distanza giusta implicherà addirittura tagliare parti del soggetto che vogliamo fotografare. Pensando ancora ad un ritratto, sono molto di moda i ritratti che tagliano la parte superiore della testa. 

Tre modi per avvicinarsi ai soggetti

Il modo più ovvio per riempire la cornice, per avvicinarsi ai soggetti, è quello di muoversi, di essere fisicamente più vicini. Talvolta, ciò è impedito solamente dal nostro imbarazzo, la timidezza può spingerci a non volerci esporre, ad evitare il contatto col nostro soggetto. È importante vincere quest’imbarazzo quando è ingiustificato, per potere scattare foto come si deve. Altre volte, purtroppo non è possibile avvicinarsi a causa di ostacoli insormontabili, come un divieto di calpestare un’aiuola che ospita un bellissimo fiore. In questi casi, entrano in gioco i prossimi due modi per avvicinarsi ai soggetti.

Come avrete intuito, un’ulteriore possibilità è costituita dall’aumentare la lunghezza focale. Se abbiamo un obiettivo zoom proviamo a zoomare, se anche questo non basta, proviamo a montare un obiettivo che copra lunghezze focali maggiori (se ce l’abbiamo a disposizione, ovviamente). Stiamo però attenti, che cambiare lunghezza focale vuol dire introdurre alterazioni prospettiche nella foto e altre variazioni, ad esempio alla profondità di campo.

L’ultima spiaggia, consiste nella post-produzione. Quando visualizziamo una foto sullo schermo del nostro pc e ci accorgiamo che avremmo potuto essere più vicini, possiamo sempre ritagliarla, eliminando la parte di troppo. Secondo me, questa deve essere veramente l’ultima delle opzioni. Solitamente, è molto meglio ottenere una foto il più possibile vicina alle nostre aspettative direttamente al momento dello scatto, in quanto ogni elaborazione allunga lavoro e tempo da perdere sulla foto. Inoltre, ritagliare una foto non è completamente indolore. Innanzitutto, a seconda della risoluzione e della porzione di foto da eliminare, potremmo ritrovarci con un immagine a risoluzione troppo bassa. In secondo luogo, l’effetto che si ottiene ritagliando non è assolutamente comparabile con quello che si ottiene aumentando lunghezza focale o avvicinandosi ai soggetti.

Alleniamoci prima di scattare le foto

Come ho sostenuto spesso, è molto utile allenarsi a riconoscere la corretta distanza tra noi e i soggetti delle nostre foto anche senza la fotocamera in mano. Innanzitutto, possiamo farlo osservando le foto dei grandi maestri o di fotografi che in genere ci ispirano, cercando di riconoscere come questi posizionano i soggetti all’interno dell’inquadratura, come riempiono la cornice. In secondo luogo, è sempre un buon esercizio osservare le nostre foto, è vedere in quali di esse la vicinanza con il soggetto ha portato ad un buon risultato e in quali altre essere più vicini avrebbe giovato.

Quindi, d’ora in poi, ricordatevi sempre prima di scattare di chiedervi sono abbastanza vicino? Sto riempiendo la cornice?

Buona fotografia!